Lo scrittore come Maestro
Pubblicato in: Nuova Antologia, anno LXVIII, fasc. 1459, pp. 30-41
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Data: 1 gennaio 1933
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Diceva Napoleone il Grande che c'è una sola figura rettorica veramente efficace: la ripetizione. E si potrebbe aggiungere, in senso un po' diverso, che val la pena di dire soltanto quelle verità che sono state dette e ridette le mille volte. Coloro che le ridissero non erano, come si potrebbe provare, nè ignoranti del passato nè gente alla quale piacesse far la parte dell'eco. Se le ripeterono vuol dire che ce n'era bisogno. Siccome la nostra mala razza ha la mala abitudine di scordare e negligere ciò che non fa comodo ai suoi istinti, alla sua pigrizia ed ai suoi fanciulleschi o animaleschi capricci, ne vieti di conseguenza che codeste verità son di prima e somma importanza, di quelle che non se ne può fare a meno: degnissime perciò d'esser richiamate, ricordate, ribadite e ribattute almeno ogni terzo di secolo, e anche più spesso.
Un vecchio amico mio saggiamente e lepidamente usava dire che l'errore rinasce nelle menti umane come la barba sui visi e che i filosofi sono i barbieri destinati a radere, ogni poco, quell'ispida e rispuntante vegetazione col rasoio affilato della verità. E difatti, leggendo Platone, occorre spesso di veder combattuti da Socrate certi maliziosi giochi di linguaggio e certi zoppi paradossi che poi son tornati fuori nel Rinascimento o nel Settecento e perfino, è tutto dire, ai tempi nostri illuminatissimi.
Confortato da tali pensieri e precedenti mi arrisico anch'io a fare una parte che m'è piaciuta sempre poco: quella del ripetitore. E mi propongo di riesaminare, dopo tanti, quale sia l'ufficio vero dello scrittore, se debba essere, cioè, come vogliono e praticano molti ai giorni nostri, un solitario mosaicista e intagliatore di parole e d'immagini a servigio del suo « mondo interiore » e, più spesso, un divertitore più o meno fortunato degli oziosi e viziosi leggenti, o non piuttosto, come io credo, un maestro di dottrine volte al miglioramento degli spiriti, un suscitatore di quelle passioni più alte che sole posson contrastare e affievolire, se non spengere, quell'altre passioni, più comuni, che ci portano al basso.
Scrittori che nobilmente e talvolta eroicamente, a dispetto del clima contrario, si sforzano, attraverso opere letterarie di buona qualità, di ricondurre gli uomini a quegli insostituibili beni spirituali che son porte
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alle varie salvezze, non mancano oggi in Europa e neanche, per esser precisi, in Italia. Ma son pochi e non sempre i più letti. Tutti gli altri, sembra a me, sono discepoli di Onan col soccorso del vocabolario, o industriali pagati per la fabbricazione di opere destinate all'assassinio del tempo, o arzigogolatori di raffinatissime psicologie o d'intrighi polizieschi per la ginnastica d'una parte sola della mente umana, o buffoni volontari per strappare alle turbe magne qualche dorata risata. Cioè: cerebrali, mercanti o pagliacci. Spuntano da tutte le parti poeti arcanisti o antiquari, narratori narcisi o mezzani e, per sostenere il mercato, critici che bellamente innestano la cabala sulla camorra.
Costoro, per dire la verità, non hanno ancora massacrato tutti i galantuomini che sopravvivono nella vecchia repubblica, ma li stanno trasformando, se il giuoco dura, in tanti accusati o imputati. Se uno, ad esempio, accenna vagamente all'esistenza della morale lo bollano come catechista; se un altro, per caso, si riscalda per una sua fede o passione lo gabellano per retore; se un terzo, imprudente, si permette d'insegnare qualcosa che a lui par verità lo mettono alla berlina come volgare « contenutista ›.
Ed è proprio a questo punto che volevo arrivare: la letteratura, insomma, dev'esser soltanto un gioco di parole in punta di forchetta e d'immagini esoteriche e, tutt'al più, un sollazzo (presunto) col racconto di finte avventure o può essere e dev'essere l'espressione di tutto l'uomo scrittore coi suoi sentimenti e coi suoi pensieri, una letteratura, cioè, che esprima ed insegni qualcosa di giusto e di profondo e non si proponga soltanto il gusto degli orecchi e lo sfrullamento delle fantasie?
Se non ci si vergognasse, ormai, di ricorrere agli esempi degli Antichi e dei Moderni si potrebbe asserire, senz'altro esame, che il passato remoto e il prossimo dànno ragione a chi vuole una letteratura che dica qualcosa, una letteratura, crepi ogni rispetto estetico, insegnativa e pedagogica. Omero non era soltanto l'aedo delle corti, ma intendeva educar nuovi eroi e fare opera di storico. Eschilo è insieme, nelle sue tragedie, sacerdote e cittadino; Virgilio, col suo poema sacro, aspira a ridare ai romani una seria coscienza della religione e delle origini patrie. Non parliamo del nostro Dante che volle esser profetico maestro di religione, di morale e di politica dalla prima all'ultima terzina delle tre cantiche, ma perfino il Petrarca, l'innamorato e umanista Petrarca, non si peritò di mescolare alle rime per la bella avignonese poesie d'ammaestramento civile e di calda pietà. Né il Machiavelli scriveva per trastullare i fannulloni
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d'Italia bensì per insegnare ai principi e agli Stati i fondamenti della politica, nè poetavano al fine di fornire indovinelli ai critici fallocefali il Panini, l'Alfieri, il Foscolo, il Carducci. Neppure il Leopardi componeva liriche soltanto per sublimare le tristezze della sua anima orfana ma anche per destare gli assonnati e per insegnare una filosofia ch'era un messaggio del nulla, ma era tuttavia e voleva esser pensiero. E non era forse ambizione profonda del preteso olimpico Goethe quella d'essere, dopo Lutero e Leibniz, praeceptor Germaniae?
Anche nel romanzo, almen nei maggiori, non c'è soltanto il gusto del raccontare per raccontare e l'intenzione di far passare gradevolmente le serate, ma c'è, quasi sempre, un fine segreto o palese al di là della mera narrazione. I Promessi Sposi — bisogna sempre ricascar qui — erano, nella mente del Manzoni, una grande lezione di morale evangelica, con qualche excursus storico e patriottico.[1] I più famosi romanzi di Victor Hugo sono apologie o atti d'accusa; quelli del Dickens patetici memoriali per richiamar la pietà sulle sorti dei ragazzi e dei poveri, offensive contro la dura ipocrisia vittoriana. Perfino quelli di Zola, a dispetto della proclamata oggettività del « pezzo di vita », erano indirette requisitorie contro la società borghese o ingenue dimostrazioni di teorie pseudo scientifiche. Il patriarca del romanzo russo, Nicola Gogol, dichiara e ripete ogni momento che vuol servire, colle sue opere, la Russia e l'umanità e non per rifare in più alto tono i romanzi polizieschi furono scritti Delitto e Castigo e i Fratelli Karamazov: Dostojevski sa d'essere un maestro d'evangeliche verità e un profeta nazionale. E nessuno fu tanto pedagogo nei romanzi quanto il Tolstoi dell'Anna Karenine e di Resurrezione. Perfino uno degli idoli dei giovanetti oggi scriventi, il Lawrence, si valse anche del romanzo per predicare la sua filosofia. La quale era bensì il messaggio d'un gorilla puritano, ma era pur sempre teoria ed ambiva a diventar vangelo di rinnovazione per l'Inghilterra e per il mondo.
Potrà sembrare, a questo punto, ch'io sfondi le porte aperte. Ma il mestiere di sfondare le porte che paiono aperte è un utilissimo mestiere, specie in tempi nei quali si tenta tutti i giorni di chiudere quelle che s'immaginavano spalancate per sempre.
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Ci sono stati, bensì, periodi anche lunghi nei quali non si troverebbero, o soltanto col soccorso di lanternini, esempi d'una letteratura formativa e pragmatica. C'è, nella letteratura greca, il periodo Alcssandrino, quello dei poemetti di mitologia rinfiocchettata e degli epigrammi sudici dell'Antologia — il periodo, per intendersi, dell'oscurissimo Licofrone. E ci sono, nell'italiana, i due secoli che corrono dalla fine del Cinquecento fin quasi alla fine del Settecento — quei secoli che ci dettero i Marinisti e gli Arcadi, ch'io regalerei volentieri, tutti in un mazzo, a chi li vuole: similoro, lustrini, frascherie, vuotaggine e cascaggine.[2] Ci sono, nella letteratura francese, i Parnassiani e i Simbolisti, che aspiravano all'impassibilità neutrale e al gelo sistematico o si divertivano a fare a nascondino nella foresta di cartone dei misteri verbali. Di quelle due scuole non è sopravvissuto un sol poeta vero, ché Verlaine non fu parnassiano che in gioventù e solo per abuso fu annesso dai simbolisti in vecchiaia. Quanto a Rimbaud ebbe tal repugnanza della poesia sua e dei suoi amici che fuggì in Abissinia a trafficare. Oggi c'è Valery, che fa l'ermetico in versi, ma poi, quando scrive in prosa — e scrive benissimo — aspira ad esser moralista, pensatore e perfino profeta.
Si potrebbe, dunque, ragionevolmente concludere che nelle grandi epoche i grandi scrittori sono, in maggioranza, educatori e maestri e che soltanto nell'epoche spiritualmente stracche fiorisce la letteratura come spasso egocentrico, come spengipensieri ed aguzzaingegni, la letteratura impropriamente detta « pura », ch'è letteratura per i letterati e non per gli uomini.
E oggi, se non sbaglio, ci son parecchi segni, anche nell'Italia nostra, di una nuova offensiva di questa letteratura di perditempi che ha per doppio simbolo la torre in falso avorio di celluloide e la ciminiera di mattoni, giacchè ostenta alle due ali estreme la versificazione covata dalle pentarchie cenacolari e la fabbricazione all'ingrosso dei romanzi di vasto consumo. Il segno che unisce fraternamente la poesia persa[3] e i romanzi gialli è, mi pare, l'Enimmistica. Dinanzi a una lirica dei nostri ultimi poeti il problema è questo: cosa ha voluto dire o significare? Dinanzi a un romanzo poliziesco il problema, praesente cadavere, è diverso: chi l'ha ucciso? In tutt'e due i casi però siamo di fronte a un enimma: si tratta di trovare un bandolo e un malfattore.
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La poesia modernissima è l'enimmistica a uso dei raffinati, degli snobs, della élite dilettantesca — queste parole straniere, in tali casi, vengono sotto la penna per impulso irresistibile —; il romanzo poliziesco è l'enimmistica a uso della plebe. Nell'un caso e nell'altro bisogna adoprare le facoltà inquisitive; essere un buon solutore di sciarade o un apprendista giudice istruttore. La letteratura non è più godimento e nutrimento di tutta l'anima ma semplice esercizio cerebrale — per i colti la poesia persa, per gl'incolti il romanzo giallo. Le ragioni del cuore son neglette e abolite. Si rivolgono all'intelligenza, ma non a tutta l'intelligenza e neanche alle parti superiori dell'intelligenza, bensì a quella secondaria facoltà che si diverte a decifrare i crittogrammi e a dipanare le matasse criminali.
Nulla che tocchi l'uomo profondo, ne l'uomo che crede e spera, nè l'innamorato della donna o della patria, nè l'uomo che medita e soffre; l'uomo intero, insomma, colla sua piena, passionata, dolorosa, umana umanità.
Si scrivono e si leggono, lo so, anche romanzi d'altro colore che il giallo. Non hanno nulla di misterioso tutt'altro! Sono, il più delle volte, bige narrazioni di avventure comuni in forma al disotto del comune; o tentativi di rappresentare drammi introspettivi e quadri di costume colle pretensiose e leziose fioriture intellettuali di moda; o eleganti rifaciture di temi disugati e disossati; o esibizioni di sessualità afrodisiaca; o rincollature di ricordi d'infanzia e di gioventù. Cioè: industria, vanità, sesso. E anche nei romanzi non gialli affiora, spesso, la mania esoterica ed ermetista: si ripensi a certe pagine di Virginia Woolf e di Hermann Hesse e, soprattutto, a Work in progress di Joyce. Si oscilla, sempre, tra il Sessualismo e l'Arcanismo.
C'è, dunque, in questi libri narrativi, ora l'onesto commerciante, ora l'indulgente autobiografo, ora il casto pornografo, ora il fedele grammofono, ora il leale cerretano. Non c'è mai il maestro o, se c'è, non è che maestro di parole o di perversioni.
E quando s'è mangiato, o divorato, codesti frutti del pomario fabulatorio, poco o nessun nutrimento resta nell'anima: rimorso del tempo perduto, prurito di cattivi istinti, disappetenza della vita, vago galleggiare di manichini parlanti, e soprattutto un'amara posatura di smaniante inutilità.
Per questo, dunque, sono nati gli uomini? Questi son gli scrittori ai quali Dio concesse tanti privilegi d'animo e d'ingegno? Questo il cibo dei nostri prossimi e lontani fratelli?
Eppoi lasciatemi dire un'altra cosa, che mi pare importante. A moltissimi ha dato noia — e non capisco bene il perchè — la mia scarsa ammirazione per il romanzo e s'è creduto ch'io parlassi per ragioni soltanto
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letterarie. Non è vero. Ci sono, accanto e sopra a quelle, altre ragioni, più gravi, che riguardano in particolar modo l'età presente.
In questa fine del primo terzo del secolo gli orizzonti della terra sono d'un così nero color di castigo da far diventare apocalittici anche i montagnoli dell'Arcadia. Non guardiamo soltanto all'Italia che in questo momento è, per molti aspetti, un'oasi e una diga. Ma se l'Italia rappresenta, nella sfera spirituale, almeno un terzo della civiltà universale, non conta che la cinquantesima parte della popolazione terrestre. E le cose sono a tal punto, per chi sa vedere al di là delle quarantott'ore, che una gran porzione del genere umano è in pericolo di morir di fame e un'altra, forse più grande, d'essere ammazzata in guerra. Questo non è pessimismo mio: son previsioni che ripetono da qualche tempo gli uomini di Stato che non hanno perso la vista.
In mezzo a tali minacce e a tali prospettive è mai concepibile che un uomo di cuore possa sul serio appassionarsi a scrivere o a leggere quei lunghi novelloni dove si tratta di sapere se la signora A. passerà dal letto di B. in quello di C. oppure se la signorina D. sposerà E. o piuttosto F., se G. ammazzerà H. o sarà ucciso da L., se M. arriverà al capolavoro o al suicidio, se N. scoprirà il tradimento di O. aiutato da P. o da Q., se R. diventerà padrone di capitali e di cuori, se S. potrà nascondere il suo delitto, se T. ritroverà la perduta U. o la salvatrice V. e via dicendo fino alla Z?
Le novelle si raccontano ai bambini; i grandi a ben altro hanno da pensare. Le novelle si raccontano quando il mondo è quieto e nulla manca: quando vengono gli hard times e s'odono da ogni parte guerre e rumori di guerre e tanta parte dell'umanità smania vanamente nel perseguire una salvezza in quegli stessi valori che condussero al disastro, quando il mondo è in tale confusione e disperazione, ci vogliono ben altro che romanzi e novelle. Ci vuol pane e voi date chicche biascicate. Ci vuol luce e voi date fuocherelli di bengala che si spengono appena accesi. Ci voglion parole di fede, di risveglio, d'amore, di riconciliazione, di saggezza e voi venite a raccontarmi, in quattrocento pagine, in qual modo il signor Tizio è riuscito a indurre la signora Caja a commettere un peccato punito dai codici umani e da quello divino.
« Quand'ero bambino — dice San Paolo — parlavo come bambino, pensavo come bambino, ragionavo come bambino: quando son divenuto uomo, ho smesso le cose da bambino [4]
Fra le cose da bambini son le novelle, destinate a baloccare le immaginazioni puerili. Ma la specie non è ancor giunta all'età adulta, all'età virile? Neppure le sventure, che invecchiano, possono trarla su dall'infanzia?
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Non sarebbe l'ora del disfanciullamento del genere umano? Non è il momento questo, o non piò, di guardare in viso la nuda verità, per quanto tremenda, e di parlare agli uomini da uomini, senza interposizioni di miti e di personaggi immaginari, e d'insegnar loro, colla forza dell'arte, per quali vie possono recuperare la pace perduta e quella po' di felicità sostanziale ch'è alla portata di tutti?
Divertire gli annoiati, far sorridere i tementi, distrarre colle parole i minacciati e i morituri sono, dirà qualcuno, opere di misericordia spirituale e il romanzo, perciò, non merita una tal savonaroliana severità.
Innanzi tutto non è vero che i romanzi, almeno la maggior parte, abbiano sugli spiriti una così benefica influenza. Spesso annoiano, talvolta irritano, turbano e disgustano. Ma se codesti vicarianti dell'etere e dell'eroina possono esser tollerati, non dico giustificati, in epoche di pace e di pasciona sono, mi sembra, insufficienti o molesti in tempi grossi e calamitosi. La stessa civiltà è in pericolo [5] e noi dovremmo mettere il capo in seno, come gli struzzi, e ingollare a pezzetti, come gli struzzi, i mattoni dei nostri novellatori? Cercare, come si diceva, il « dolce oblio », nelle braccia dei fabbricanti di vita finta? Mentre íl mondo già puzza di bruciato si dovrebbe stare a trastullarsi coi problemi sentimentali e sessuali d'un signor X mai esistito o d'una signorina Y che si spera non esisterà mai?
Questi non son anni di giochi, sia pure praticati da campioni di raffinatissima intelligenza. Non son tempi da piangere, chè il pianto non è da uomini, ma neanche da baloccarsi. È tempo di meditazioni, di ammonimenti, magari di esami di coscienza e di appelli non già di versicoli iniziatici o di romanzetti sull'omicidio e la fornicazione.
La poesia d'oggi, di solito, non dice nulla o dice soltanto piccole impressioni di piccole anime sì che alla rieducazione umana non giova. Se la massa s'è allontana dai poeti non è colpa soltanto della massa. Rispetto le ragioni dell'arte e non pretendo che i poeti si mettano addosso la tonaca dei predicatori. Il grande lirico non può servire direttamente agli interessi dell'umanità, benchè giovi, poi, anche a questi, s'è grande davvero. La sua ispirazione dev'esser libera e gli si può concedere di cantare l'allodola e la gioia anche se dai quattro canti del mondo cominciano ad apparire le caligini mortifere dei vapori avvelenanti. Ma ho detto lirico
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grande e di lirici grandi non ne nasce più di due o tre per secolo, quando le cose vanno bene e Dio c'è propizio.
Tutti questi versificatori da contarsi a dozzine, come l'ova, e che non hanno nulla da dire e per nascondere l'indigenza dell'ispirazione si occultano dietro il velame, non già di « versi strani » ma di versi inani, insani o parabolani, farebbero meglio a stare zitti o a scrivere in prosa onesta su argomenti di pubblica utilità.
Per fortuna quei versi son letti da pochi e da nessun altro ammirati sinceramente fuor che dagli autori. Ma il caso dei narratori è più grave. Essi inorridiscono all'idea d'insegnare — vogliono soltanto divertire o, nel miglior dei casi, creare opera d'arte pura — ma in realtà insegnano anche loro e insegnano, settantasette volte su settantotto, il male. Noi, dicono, si dipinge la vita e la vita è fatta così. I romanzi a tesi son brutti romanzi; e nell'arte non ha luogo il moralismo.
Son questi, ormai, luoghi comuni in bocca ai tiepidi cretini che coltivano in vitro il malfrancese. Tutti ricordano la frase famosa del Gide: c'est avec les beaux sentiments qua l'on fait la mauvaise littérature [6] Frase maligna ma che in fondo non dice nulla. E' verissimo che molta cattiva letteratura, cattiva dal punto di vista letterario, è piena di bei sentimenti, ma son vere anche le proposizioni contrarie, cioè che moltissimi libri artisticamente mediocri e mal riusciti son fatti coi brutti sentimenti, mentre ci son pure libri, bellissimi anche per gli esteti, che si fondano sui sentimenti belli.
Il dominio può aver la sua parte, come afferma il Gide, nell'opera d'arte in quanto ad alcuni artisti occorre un po' d'orgoglio — qualità eminentemente satanica — per creare. Ma l'importante è che l'artista sia davvero artista: se oltre che artista è anche un galantuomo e magari un apostolo o un santo state pur sicuri che l'opera d'arte sarà sempre bella. Si dice, ad esempio, che l'intrusione del pensiero religioso può menomare o turbare la purità dell'arte, ed è verissimo che molti libri di apologetica o devozione sono scritti in modo da far diventare odioso, se fosse possibile, lo stesso Cristianesimo. Ma se una fede potente s'incontra in un'anima coll'attitudine all'arte vien fuori tutt'altro che cattiva letteratura. Certe lettere di San Paolo, certe pagine di Sant'Agostino, di Bossuet, di Pascal, del Manzoni, sono meraviglie di stile dinanzi alle quali anche i mocciconi anticattolici e i critici schifatutto si devono levare tanto di cappello. All'arte più che la collaborazione del demonio, giova quella d'Iddio. Lasciatelo dire a uno che ha provato questa e quell'altra. Avec ma main brùllè — dirò col Flaubcrt — j'ai le droit maintenant d'ecrire des phrases sur la nature du feu.
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Ma questo divorzio tra la morale e l'arte — ch'è stato, ultimamente, aggravato dalla fortuna di un'estetica che ha fatto più male che bene alla nostra cultura — poggia sul timore che le « preoccupazioni moralistiche » siano nocive alla libertà della creazione. Questi paurosi, poi, non temono affatto che i sottintesi immoralisti possano avere la stessa influenza nefasta. L'idea del bene, secondo loro, fa male; l'idea del male fa bene.
La verità è questa: le preoccupazioni estranee all'arte, diciamo pure i fini pratici e pedagogici, posson nuocere agli artisti che son piccolini come artisti e piccolini come moralisti. Ma se un artista è veramente grande e le sue idee morali non sono semplici concetti appiccicati dall'esterno, ma in lui si trasformano in forti e vissute passioni, sì che diventano elemento non del suo pensiero soltanto, ma di tutto l'essere, allora state sicuri che non v'è danno per l'arte ma, invece, potenziamento e sublimazione delle sue stesse facoltà artistiche. Mai siamo così eloquenti come quando si parla di noi stessi e se quell'idee son diventate davvero parte intrinseca dell'io nostro, l'arte, in quanto espressione viva ed energica, ne avrà vantaggio e non danno.
Non si vuol negare, intendiamoci, l'autonomia e l'indipendenza dell'arte. Un potente scrittore può sorgere anche in tempi di morale e civile decadenza, e i grandi creatori non si curano, sempre, di creare in servigio dell'umanità. Ma bisogna avvertir subito che quando son grandissimi l'opera loro è, sia pure indirettamente, ammaestratrice, anche se ispirata da una libera fantasia. E aggiungiamo che in molti di questi sommi c'è compenetrazione perfetta tra la spontaneità dell'immaginativa e il consapevole intento d'esser maestri e profeti.
Non è punto vero che Dante, ad esempio, sia inferiore come poeta quando sermoneggia contro l'ignominie dei suoi tempi o traduce in versi le verità teologiche. Se certe parti della Commedia paiono sorde o tediose dipende dall'ignoranza filosofica e teologica di chi la legge e dall'assenza di quella fede etica, mistica e messianica ch'è il vivo sangue di tutto il poema. Tutti i discorsi che oggi si fanno sulla distinzione di poesia e struttura nella Divina Commedia sono discorsi di gente che ha perso la chiave e nonostante vuol fare l'inventario della casa. Sarebbe lo stesso che voler separare, nel Giudizio Universale, il disegno dal colore, la concezione teologica che lo informa dalla visione plastica. Per gli antichi il poeta e il pittore erano anche maestri e appunto perchè si proposero d'insegnare furono anche grandi come pittori e poeti. Quelli d'oggi, che aspirano ad essere puri artisti e nulla più, sono, quasi sempre, inferiori agli antichi. Ed è giusto: un artista non può esser soltanto un occhio che vede, un orecchio che sente, una memoria che ricorda e una penna che infilza vocaboli. Un artista è, prima di tutto, un uomo e nell'arte
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sua deve esprimere sè stesso. Se è innamorato d'Iddio e del bene, della patria e dell'umanità non deve vergognarsi di manifestare codesti amori. Se crede d'aver qualcosa da insegnare ai suoi fratelli meno veggenti non deve rattenersi dal trasmettere, colla magia dell'arte, tali insegnamenti. Cattivo artista sarà colui che predica verità non sentite e non credute, o insegna per suggerimento d'altri o per suoi scopi di privato procaccio. Sarà per forza freddo, scipito o contorto chè nello stesso tempo tradisce l'arte e l'onestà.
Ma se quell'idee son sangue del suo sangue e inviscerate nel suo animo con caldezza di adesione non c'è nessun pericolo, eccettuato il caso che le capacità artistiche gli siano state fornite con estrema parsimonia. E il fuoco della carità, talvolta, tramuta in grandi poeti anche i semplici di spirito.
Che l'ufficio dello scrittore sia, oltre che d'essere buono scrittore, anche buon maestro, è, se Dio vuole, vecchia tradizione italiana, benchè non soltanto italiana. In Grecia i primi filosofi scrivevano in versi e i poeti, sia i lirici come Pindaro, sia i tragici come Euripide, mischiavano riflessioni e sentenze alle immagini puramente poetiche. E forse l'Amleto è il più famoso e popolare dramma di Shakespeare perché abbonda, più degli altri, di sottili e inconsueti pensieri.
Ma in Italia, soprattutto, l'ufficio civile, morale e religioso della letteratura è stato riconosciuto e difeso più che altrove, e nel Trecento e dalla fine del Settecento alla fine dell'Ottocento più che in altri secoli. Perfino il Boccaccio, ch'è tutto dire, spese due capitoli della sua Vita di Dante per dimostrare che il poeta è somigliante al teologo. Ma la piena coscienza di questa dignità educativa della letteratura appare coll'Alfieri, che fu seguito a breve distanza dal Foscolo, dal Monti, dal Giordani, dal Leopardi, dal Gioberti e dal Manzoni. [7] Non si arrivò fino al punto di vedere nel poeta un sacerdote, anzi il vero e proprio sacerdote, come enfatizzò Victor Hugo, ma tutti i nostri migliori, fino al Carducci incluso, hanno sempre creduto nella missione pedagogica dell'uomo di penna, e hanno sentito che il poeta perdigiorni e il narratore sciupanotti son propri dell'epoche di smarrimento, chè non sempre c'è .
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armonia e parallelismo tra rinascite politiche e rinascite letterarie. In tempi politicamente tristi ci possono essere grandi geni maestri, in altri politicamente forti può accadere che la letteratura indugi a conformarsi ai nuovi ideali della nazione. Eppure, in epoca assai diversa dalla nostra, il Gioberti poteva scrivere queste parole: « La nostra letteratura prosastica, da pochi scrittori in fuori, somiglia a quella de' bizantini; fredda e vuota di concetti profondi e pellegrini, ma concinna di stile, di lingua, e lauta di leggera e leggiadra erudizione... ». Con leggere varianti si potrebbero dire oggi le stesse cose. Gli scrittori italiani, dietro gli esempi e gl'incitamenti del Carducci e del D'Annunzio, hanno imparato, cioè rimparato, a scrivere. Quasi tutti, giornalisti e romanzieri, sanno scrivere spesso con brio, con sapore, con grazia di vocaboli e novità d'immagini. Ma, di solito, hanno poco da dire o non si arrischiano a dire quel che hanno nell'animo, o temono di passare da predicatori, da retori e peggio. L'ultimo nostro scrittore maestro è stato, forse, Alfredo Oriani e l'ultimo poeta patriottico Gabriele D'Annunzio. E se a volte le prose dell'uno o le poesie dell'altro sembrano gonfie e fredde la colpa non è tanto della materia quanto dello stato d'animo dello scrittore. Ma le più belle mosse dell'Oriani nascono sempre da un'emozione morale e quasi mai il D'Annunzio è stato più arguto, schietto e felice prosatore come in un discorso elettorale che fece tant'anni fa a Firenze contro certi santoni e vandali di quel basso tempo.
Ripeteranno lo stuccoso ritornello: ch'io sono paradossale e pessimista. Perchè oggi siamo arrivati al punto che se uno sostiene ingenuamente che il far l'elemosina è meglio che rubare passa subito per escogitatore di paradossi. E pensare che a me, invece, è venuto quasi il rossore nel ripetere cose che altri, più grandi, dissero meglio ch'io non possa dire. Quanto all'accusa di pessimista — egualmente falsa — ci ho fatto il callo. Il pessimista vero è colui che non si lamenta mai di nulla tanto è persuaso dell'irrimediabile imbecillità degli uomini e della radicale vanità della vita e d'ogni umana azione. Chi alza la voce per rimbrottare o, meglio, per ricordare verità dimenticate o calpestate vuol dire che spera e s'aspetta giorni e uomini migliori, che ritiene emendabili e riformabili le creature e le nazioni.
Ci sono due modi di parlare dei nostri simili: dirne bene e dirne male. Col troppo lodare si favorisce la superbia e l'ignavia; col biasimare a tempo — quando non sia per sfogo di malignità fine a sè stessa — si può giovare a coloro che paiono avversari, ma sono in realtà fratelli che si vorrebbe beneficare.
Ma non c'è la peggio di quando uno è stato battezzato in un dato modo. A me, anni fa, capitò di affermare che il romanzo è un genere
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inferiore e che gl'italiani ci riescono meno bene degli stranieri. (i) Mi pareva d'aver fatto un elogio all'Italia, che in generi per me superiori, come la poesia e la storia, è al disopra degli altri popoli: invece mancò poco non mi facessero passare per nemico della patria!
Ripeto che ci sono anche ai giorni nostri, in Italia, scrittori che, magari coi romanzi, tentano d'esser maestri di vita più seria e più alta e c'è, anche tra i giovani, chi aspira a un contenuto più sostanzioso dell'arte narrativa. (2) Ma non c'è ancora piena rispondenza tra la restaurazione dei valori politici, morali e religiosi e la letteratura dell'ultime generazioni che, troppo spesso, si gingilla colle penultime mode di fuorivia.
Tutte queste cose ho dette, come italiano e come scrittore, perchè ritengo utile che ogni tanto siano ricordate a chi non le conosce o finge di non averle mai conosciute. Le ho dette senza perifrasi e precauzioni perchè le sento e le riconosco vere. E anche, infine, perchè io stesso peccai, in altri tempi, in modi simili a quelli che oggi usano e trionfano. Che la mia esperienza serva, almeno, a diminuire le conseguenze dell'errore.
E se anche questa volta mi chiameranno sorpassato, superato, guastafeste, predicatore a spasso e anche peggio, mi consolerò, non potendo far altro, con quelle famose parole del Leopardi: « Fu odiato comunemente da' suoi cittadini; perchè parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini... ».
1 Mi piace qui riportare una giustissima osservazione di Giovanni Gentile contenuta nel suo discorso sul Manzoni (1923): «da che il Rinascimento ebbe allettati e attratti gl'italiani verso il mondo dell'arte pura e del libero esercizio dell'astratta intelligenza; da che esso Rinascimento, restaurando le forme dell'antico spirito classico, li ebbe spinti a sciogliersi da ogni vincolo col presente, dov'erano tutti i loro interessi e problemi religiosi, morali e politici, cioè dopo Dante, gl'italiani non avevano più udita voce di poeta che esprimesse i motivi più profondi dello spirito umano, e che toccasse e facesse risonare tutte le corde del cuore, rappresentando un ideale di umanità viva, piena cd intera». GIOVANNI GENTILE. Dante e Manzoni. Firenze, Vallecchi, 1923, pp. 112-113. ↑
2 S'intende che s'escludono, da questa decadenza, i pensatori come Galileo, Vico e qualche altro. ↑
3 Intendo, a scanso d'equivoci, il color «perso», quello che Dante della, stupendamente. «Lo perso è un colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero e da lui si dinomina». (Convivio, IV, XX, 2). ↑
4 I Corinti, XIII, 11. ↑
5 Si ricordi il grave monito di Mussolini sui pericoli che corre la civiltà occidentale (Popolo d'Italia, 12 gennaio 1932). ↑
6 A. Gide. Dostoievsky. Paris, Plon, 1923, p. 253. ↑
7 Giustissimi pensieri su questa tradizione nostra e, in generale, sul problema dell'ufficio morale della letteratura si posson vedere negli articoli di ARDENGO SOFFICI: Critica e lettere (Gazzetta del Popolo, 16 e 19 luglio 1930); Ufficio delle lettere (Gazzetta del Popolo, 11 febbraio 1931).
È inutile aggiungere ch'io sono, quasi in tutto, d'accordo con lui. ↑
8 Che in fatto dl romanzi l'Italia è sempre andata a scuola dagli stranieri l'affermava, fin dal 1873, il CARDUCCI: «non possiamo esimerci dal triste obbligo dl riconoscere che, in materia dl romanzi, l'Italia, magna parens frugum, doveva, anche nel secolo decimosettimo, cercare i modelli oltre Alpe e in Francia» Opere, III, 213. ↑
9 Alludo al notissimo articolo di GHERARDO CASINI nel Lavoro Fascista, che ha suscitato tante utili discussioni. ↑
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